Dazi, e sai cosa bevi
Se non cambia niente, e niente cambierà nel breve periodo, ma potrei essere smentito anche subito e questo post invecchiare malissimo, se non cambia niente, per tutto il fine settimana non succederà niente. E quindi continueremo a parlare di dazi e cercare soluzioni, sperando di non farci ancor più male. Nel frattempo faccio una sintesi tra le varie fonti sul commercio tra EU e Stati Uniti (nel link trovate quel che riporta Wikipedia, con le fonti dei numeri).

L’EU è in saldo attivo nei confronti degli Stati Uniti per quel che riguarda l’import-export di beni e merci varie: esportiamo merci per 503 miliardi di € ed importiamo dagli USA merci per 347 miliardi di €. Per quel che riguarda invece i servizi, esportiamo per 292 miliardi di € ed importiamo per 396 miliardi di €.
Facendo la somma di beni e servizi, quindi, esportiamo per 795 miliardi di € ed importiamo per 743 miliardi di €. Dunque la differenza, a nostro favore, è di 52 miliardi di €. Questi sono i numeri, che vanno poi visti settore per settore. Per questo, vi rimando al sito dell’Istat, ad esempio, o direttamente al sito governativo degli Stati Uniti.

Quindi, come da più parti gli economisti hanno sottolineato, la famosa formula con cui Trump ha calcolato i dazi col resto del mondo è una vera e propria stupidaggine.
Vorrei sottolineare come la maggior parte dei premi Nobel dell’economia siano cittadini degli Stati Uniti. Vero anche che nessuno di loro ha mai saputo fare una previsione economica, ad esempio la crisi del 2008, quindi forse fanno bene gli economisti di Trump a rivolgersi a ChatGPT.

Quel che è vero, invece, è che gli Stati Uniti hanno un forte disavanzo commerciale con tutto il resto del mondo: importano beni (dati 2024) per 3300 miliardi di $, esportano per 2080 miliardi di $, mentre nei servizi il saldo è positivo, pari a quasi 300 miliardi di $.
Dunque gli USA consumano molto più di quel che producono, il che li costringe a comprare dall’estero. Trump, in pratica, li sta mettendo a dieta.
Il cibo USA vietato in EU - Noi mangiamo meglio
Ci sono delle barriere all’import di alcuni prodotti alimentari americani. Sono barriere imposte soprattutto per motivi di salute e di difesa dei propri marchi: L’EU ha un sistema alimentare basato sulle denominazioni e le indicazioni geografiche, insomma i nomi dei cibi sono marchi di proprietà: il Parmigiano Reggiano può essere prodotto solo nelle provincie di Parma, Reggio Emilia, Bologna (a sinistra del Reno) e Modena (a destra del Po), il Camembert può essere prodotto solo in Normandia (Camembert è un villaggio della regione), il Prosecco DOCG può essere prodotto solo a Conegliano Valdobbiadene e Asolo, e così via.
E dagli Stati Uniti è vietato importare in Europa alimenti con OGM, carni di animali allevati con l’uso di ormoni della crescita, bibite ed alimenti con determinati coloranti, latte crudo non pastorizzato o formaggi ottenuti con questo latte. Quindi, ci sono delle restrizioni per salvaguardare il nostro sistema alimentare: il cibo e il vino italiani sono sempre portati ad esempio come il massimo del gusto e della qualità, ed il sistema europeo per il cibo è il più controllato e probabilmente il più sano.
Finita questa sintesi, passiamo ad una breve rassegna di Wine News.
Le reazioni
Tutti giustamente preoccupati i maggiori rappresentanti dei produttori, Federvini e Unione Italiana Vini, che puntano sulle strategie differenziate ed evitare risposte irragionevoli. Evidenza UIV che il 76% dei 480 milioni di bottiglie italiane vendute negli USA si trova nella fascia commerciale che rischia di più dalle tariffe al 20%. Si tratta quindi, sempre secondo UIV, di oltre 300 milioni di € di ricavi a rischio, sul totale di 1,92 miliardi. A mio avviso, mettere dazi sui prodotti USA non farebbe del bene nemmeno a noi stessi: lasciamo che i prezzi maggiori se li godano gli americani, non noi. Ed aumentare i dazi di importazione, non salverà nemmeno un posto di lavoro eventualmente perduto a causa dell’aumento delle tariffe di Trump.
Nei link potete leggere i comunicati, ed aggiungo le considerazioni di GoWine, che sottolinea un fatto spesso dimenticato: la maggior parte del vino italiano che viene venduto negli USA è quello di fascia ‘popular’, ossia quella che da noi chiamiamo fascia medio-bassa. Le considerazioni sono interessanti. Considerazioni che vanno nella direzione dei ragionamenti di UIV.
Salvate le merci in transito
A causa dei dazi verso il Messico, grande esportatore di birra verso gli USA, anche questa bevanda avrà un aumento del 25% per il consumatore americano. Ma non è solo questo. Visto che ci sono anche dazi sull’alluminio, aumenterà anche il costo delle lattine, che quindi potrebbe incidere sul costo di birra e altre bevande in lattina. Constellation Brands, proprietaria di Modelo, la marca di birra in lattina più venduta negli Stati Uniti, prevede un aumento totale dell’8%. Questo naturalmente vale per tutte le bevande in lattina, un packaging che ultimamente stava prendendo slancio nel mercato rispetto alle bevande in bottiglia, soprattutto grazie al fatto che pesano di meno e quindi sono più facilmente trasportabili dai servizi di delivery. Inoltre c’è la decisiione di Constellation Brands che potrebbe vendere il suo intero portafoglio di vini, secondo un rapporto di marzo di Wine Business. Constellation non ha commentato le affermazioni, ma potrebbe esserci del vero dietro queste che per ora sono effettivamente solo voci.
Il post di Do Bianchi apre invece su alcune note positive, quasi di ottimismo. Fra tutte, quella relativa alle merci in attesa di partenza. Se avete letto il mio post, saprete che fino a qualche giorno fa i container in partenza dall’Europa per gli Stati Uniti erano fermi nei porti. Una nave portacontainer impiega più di 20 giorni per arrivare negli USA, e quindi sarebbe arrivata ben oltre il 2 aprile, il giorno di introduzione dei dazi. Invece è previsto che le nuove tariffe non siano applicabili per quei prodotti che sono in viaggio in mare. Gli importatori quindi hanno fino a mezzanotte per far partire le merci, e insomma ci sarà un gran traffico in questi giorni, nell’Atlantico.
Nel frattempo a Vinitaly sono attesi oltre 3000 buyers degli Stati Uniti, ma non è detto che verranno qui per comprare. Sarà interessante vedere come verranno accolti nei padiglioni dei vini italiani, e ancor di più lo capiremo alla fine della manifestazione, quando saranno siglati alcuni accordi che, probabilmente, non saranno più come quelli dello scorso anno.
Il problema dell’Australia con lo Shiraz
Passiamo davvero e finalmente a qualcosa di diverso. In Australia iniziano ad avere un problema con il nome del loro vitigno più famoso, lo Shiraz, quello che il resto del mondo chiama Syrah. Come con ogni vitigno, la differenza tra i due dipende soprattutto dal terreno e dal clima. Dove c’è un clima più freddo, lo Shiraz ricorda molto i vini del Rodano e quindi proprio il Syrah francese. D’altra parte, lo Shiraz è noto per non essere, generalmente, un vino molto fine, ma più grezzo e sicuramente economico. Ecco il problema: lasciare il nome Shiraz o cambiarlo con Syrah? Farlo su tutto il territorio o solo in alcune zone vinicole? Un vino di più alta qualità e quindi di più alto prezzo potrebbe non essere capito dai consumatori, che continuerebbero ad associare il nome a vini di basso pregio e quindi chiedersi il perché di un prezzo più alto.
Che lo Shiraz sia direttamente imparentato con il Syrah è noto da parecchio tempo, almeno dal 1998 quando l’analisi del DNA tra le due uve non ha mostrato differenze. Il Syrah è nato in francia, dicono queste analisi, ha origini nella regione del Rodano settentrionale come mix tra un’uva bianca, la Mondeuse blanche, e un’uva rossa, la Dureza. Arrivò in Australia grazie a James Busby nel 1832, che emigrando si portò appresso delle talee di Syrah provenienti da Montpellier. Le viti trovarono il loro ambiente più prospero nella Barossa Valley ed era chiamato Shiraz, ma non è chiaro il motivo. La differenza tra le due uve quindi è (solo) il territorio e il clima, ed è proprio questo che fa nascere qualche problema, perché chiamare Shiraz tutto il vino prodotto con queste uve in realtà potrebbe essere sbagliato, visto che sono davvero vini differenti.
Come spesso capita quando si parla di vino, si sono create due fazioni: per qualcuno il vino proveniente dal Sud Australia dovrebbe chiamarsi Shiraz, mentre quelle con il clima più freddo, più vicino a quello francese originario, dovrebbe chiamarsi Syrah. Un po’ classista, diciamo, ma potrebbe avere un senso. Non avendo un sistema basato sulle denominazioni, questo è quel che accade.
In Australia quindi si trovano spesso etichette dove c’è scritto Syrah e non Shiraz, per farlo percepire come un prodotto di più alto livello. Alcuni produttori continuano a volerlo chiamare Shiraz comunque, mantenendo così le tradizioni australiane. Insomma, i vini australiani vogliono trovare la loro identità, anche se sono prodotti con uve importate. Cantine importanti stanno cercando di spingere a mantenere il nome Shiraz e caso mai migliorare la comunicazione di questo vino, invece che cambiargli il nome.